INIZIATIVA Missione: Cei e Cimi, a Brescia dal 12 al 15 ottobre il primo Festival nazionale, grande evento di festa e incontri

Si svolgerà a Brescia dal 12 al 15 ottobre il primo Festival nazionale della Missione intitolato “Mission is possible”, organizzato dalla Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi), la Cei attraverso la Fondazione Missio; la diocesi di Brescia. Quattro giorni di eventi con conferenze, incontri, concerti, mostre, spettacoli di strada, momenti di riflessione in un clima di festa. Secondo suor Marta Pettenazzo, presidente della Cimi, il Festival può essere “uno strumento privilegiato per condividere il dono del Vangelo, che non può essere proclamato solo all’interno delle nostre chiese e comunità”. Sulla stessa linea don Michele Autuoro, direttore di Missio, che richiama il concetto di “Chiesa in uscita” caro a Papa Francesco: “Andiamo in città e nelle piazze perché la Chiesa non dimentichi che è nata in uscita”. E mons. Luciano Monari, vescovo di Brescia, ricorda che “la passione per l’annuncio del Regno di Dio ha animato la vita del beato Paolo VI, di san Daniele Comboni, della beata Irene Stefani e di tanti figli e figlie di questa terra”. “Il Festival – aggiunge il direttore artistico, il giornalista e scrittore Gerolamo Fazzini – vuole essere anche l’occasione per mettere in circolazione quanto è già stato realizzato in questi anni nel mondo missionario italiano, un mondo che vive indubbiamente una fase di difficoltà e di cambiamento ma che è ancora capace di esprimere numerose eccellenze in ambito culturale, nelle attività di animazione, nell’editoria, nel rapporto con i giovani”. Uno dei tratti distintivi del Festival sarà l’ospitalità diffusa in case religiose, oratori e famiglie secondo uno stile improntato all’essenzialità. Tra gli ospiti già confermati, i cardinali Tagle, Simoni e Filoni, padre Federico Lombardi, Alejandro Solalinde, Rosemary Nyirumbe, Blessing Okoedion,  Gael Giraud. Il programma e altre info su www.festivaldellamissione.it
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L’ospitalità monastica e religiosa



– Sorprende e, quasi commuove, quando si visita e sosta nei monasteri, l’ospitalità.
Nella seconda metà del IV secolo, il monaco Giovanni Cassiano, grande viaggiatore, fu uno dei primi a prendere contatto con i monaci del deserto in Egitto e a trasportare questa antica tradizione nella Gallia meridionale. Scriveva: «Siamo andati a visitare un vecchio che ci fece mangiare. Benché fossimo sazi, ci invitava a prendere ancora qualche cosa. Gli risposi che non volevo più niente. Allora mi disse: “Ho apparecchiato sei volte la tavola oggi per ricevere fratelli di passaggio. Ho mangiato io pure sei volte per incoraggiarli e ho ancora fame. E tu che hai mangiato solo una volta, sei talmente sazio che non puoi prendere più niente?”».
Questo aneddoto umoristico ci dice molto del comportamento dei primi monaci. Quella sorella o quel fratello incaricato oggi dell’accoglienza delle nostre abbazie avrebbe una carità così grande – e lo stomaco così solido – da osare la concorrenza con il vecchio citato da Cassiano? La generosità nell’accoglienza non fu soltanto un privilegio delle origini. Viene riportato che nel VI secolo, nei pressi di Betlemme, san Teodoro, il cenobiarca, costruttore di un grande monastero, aveva edificato tre ospizi e una locanda dove fino a «cento volte al giorno si apparecchiava la tavola».
Ci si può interrogare. Perché dei monaci, la più parte del tempo gelosamente caro alla loro solitudine e alla loro austerità, sono stati così sensibili all’accoglienza e così fedeli nel metterla in pratica? La risposta più breve e più illuminante la trovo in un altro apoftegma ,che mette in scena una grande figura del monachesimo egiziano: «Un fratello va a vedere l’abate Poemen durante la Quaresima. Dopo averlo consultato su questi pensieri, disse subito al vecchio: “Esitavo a venire in questo momento. Mi dicevo che durante la Quaresima tu vivevi forse come recluso”. Il vecchio gli rispose: “Non mi è mai stato insegnato a tenere chiusa una porta di legno, ma piuttosto la porta della mia lingua”» (L’Evangile du desert, 120).
Benché la vita monastica sia anteriore al cristianesimo di parecchi secoli, in particolare nell’induismo e nel buddhismo, il monaco cristiano ha come riferimento assoluto la parola di Dio. Volendo essere fedele a Gesù Cristo, suo Signore, il monaco sa che l’ascesi e le regole più fondamentali devono essere sottomesse alla regola suprema della carità, di cui l’accoglienza dell’altro – fratello, straniero, malato – è una delle prove più irrefutabili: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (…). Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io dico: non perderà la sua ricompensa» (Mt 10,40).
Di certo, resta sempre in primo piano nella coscienza del monaco la descrizione profetica del giudizio finale: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).
Per il fatto che frequenta assiduamente le sante Scritture, il monaco sa – anche nella solitudine più estrema – che non si può separare l’amore di Dio dall’amore dell’uomo, l’ accoglienza di Dio dall’accoglienza dell’uomo. Insegnamento meravigliosamente espresso dall’abate Apollon, un vecchio del deserto egiziano, il quale diceva che bisogna inchinarsi davanti ai fratelli che arrivano, perché non è davanti a loro ma davanti a Dio che noi dobbiamo inginocchiarci: «Quando tu vedi tuo fratello, tu vedi il Signore tuo Dio. Lo abbiamo imparato da Abramo. E quando voi accogliete i fratelli, invitateli a prendere riposo. È quanto impariamo da Lot, che invita degli angeli».
Interessante notare che a fondamento di questa ospitalità che si deve a ogni uomo, come a Dio stesso, la sentenza fa riferimento non al Vangelo, ma all’Antico Testamento con due episodi celebri di ospitalità: l’episodio delle Querce di Mamre (Gen 18), dove Abramo, vedendo davanti a lui tre misteriosi personaggi, si prostra, lava i loro piedi e li ristora con quanto di migliore ha; e l’episodio di Sodoma (Gen 19), dove Lot, aprendo la porta della sua casa a stranieri, lo strappa dalla furia della folla. Nei due casi il racconto biblico ci rivela l’identità di coloro che erano stati in tal modo accolti: Dio stesso a Mamre; i due messaggeri (angeli) di Dio a Sodoma.
Ma è un passaggio del Nuovo Testamento che ci offre, in conclusione, la morale della storia: «Non dimenticate l’ospitalità perché è grazie ad essa che certuni senza saperlo hanno accolto degli angeli (Eb 13,1).
– Che cosa dice al riguardo la Regola di san Benedetto?
San Benedetto concorda pienamente con la tradizione anteriore e resta fedele allo stesso spirito. Ma la suaRegola, come in molti altri ambiti, manifesta chiaramente accenti che sono propri e testimoniano il suo senso profondamente evangelico.
È al capitolo 53 della sua Regola sull’accoglienza degli ospiti, come al capitolo 66 sui portinai del monastero, che egli ci dà il suo insegnamento sull’accoglienza. Per noi cistercensi, che fin dalle origini lo abbiamo come riferimento esplicito – è il testo della Regola di Benedetto che fonda e ispira la nostra pratica dell’ospitalità. Mi parrebbe importante sottolineare alcune note essenziali date da questa Regola; note che, per il loro valore permanente e universale, restano per noi sempre attuali.
– Può indicarcele?
La prima è questa: il monastero, casa di Dio per gli uomini. «Gli ospiti non mancano mai nel monastero e sopraggiungono a ogni ora» (Regola 53). Questa affermazione, che si crederebbe scritta oggi, ha quindici secoli. Esprime, infatti, una delle realtà più profonde del ruolo del monastero, qualunque sia l’epoca.
Attenendoci alla definizione di un dizionario, il monastero è il luogo di abitazione di un gruppo di monaci o di monache. Ma tale definizione è riduttiva, perché tiene conto solo della destinazione sociale degli edifici. San Benedetto considera invece il monastero da un altro punto di vista, secondo una visione di fede che modifica considerevolmente la prospettiva. Per lui il monastero è «casa di Dio», e quindi luogo di ospitalità per chiunque vi si presenti, soprattutto il povero e lo straniero.
– Che cosa fonda questa visione in san Benedetto?
La Regola ci dà la risposta: «L’abate e la comunità intera laveranno i piedi di tutti gli ospiti e dopo il saluto si dirà il versetto: “Dio, abbiamo ricevuto il tuo amore in mezzo al tuo tempio”» (Regola 53,13). Ciò significa che ogni comunità monastica non è «per se stessa» nel monastero, ma per Dio. Il monastero è la casa di Dio. La comunità che vi abita non può farne una sua proprietà privata. La comunità vive nel monastero per assicurare la gestione in nome di Dio e offrire a chiunque passi ciò che essa stessa ha ricevuto: non per sé solo, ma per gli altri.
Il monastero è chiamato dunque a essere prefigurazione del mondo nuovo che il Cristo è venuto a instaurare. La missione di ogni comunità monastica è quella di offrire uno spazio di comunione, un luogo di riconciliazione; di rendere già visibile il regno di Dio, in cui non ci saranno lotte fratricide né esclusioni. Il monaco, poiché non accoglie a suo nome, ma in nome di Dio, dovrebbe – con i suoi atteggiamenti, le sue parole, il suo sguardo – far percepire la presenza del Cristo.
San Benedetto apre il capitolo 53 della Regola con un’ingiunzione molto forte: «Tutti gli ospiti che arrivano al monastero saranno ricevuti come il Cristo, perché dirà un giorno: “Sono stato vostro ospite e voi mi avete accolto”». Troviamo qui un riferimento esplicito alla scena del giudizio finale tratteggiata in Matteo, al capitolo 25. Un riferimento che è molto caro a tutta la tradizione anteriore.
Questo percorso di fede, che permette di identificare l’ospite con Cristo, è molto profondo in san Benedetto e si trova a essere del tutto in accordo con la sentenza dell’abate Apollon, perché Benedetto giunge a dire: «Si testimonierà a tutti gli ospiti un grandissimo rispetto. Con l’inchino della testa o anche con una prostrazione di tutto il corpo si adorerà in loro il Cristo che si riceve» (Regola 53).
– Quanto detto è vissuto oggi nei vostri monasteri? Come va intesa l’ospitalità ai nostri tempi?
Oggi, l’afflusso dei visitatori e degli ospiti è forte in tutti i monasteri. Un tempo terra di asilo per le persone erranti, o sosta per ritemprare il pellegrino, il monastero è divenuto ai nostri giorni luogo di ritorno alla fonte per chi cerca Dio o per colui che aspira a un riposo del cuore. Il tipo di domanda cambia, la vocazione all’accoglienza dei monaci rimane e si sviluppa.
In un mondo in costante cambiamento, alle prese con tensioni e ritmi estenuanti, oggi più che mai il monastero deve esercitare la sua vocazione di essere un luogo di pace e riconciliazione. Ogni persona, qualunque siano le sue origini, le sue convinzioni filosofiche, religiose o politiche, deve sentirsi accolta in tutta libertà e discrezione. Per questo, cristiani di confessioni diverse, ma anche persone di altre religioni, possono incontrarsi e confrontarsi nel rispetto delle loro differenze.
La testimonianza di una comunità permanente di accoglienza e di preghiera può essere uno stimolo prezioso per le persone che condividono il meglio di ciò che la stessa comunità può offrire con il suo silenzio, la sua liturgia, la sua pace. Ma la comunità che accoglie riceve anch’essa dall’ospitalità più di quello che offre. A contatto con le persone che accoglie, e che spesso si attendono molto da essa sul piano spirituale, la comunità monastica prende coscienza delle esigenze del suo compito e delle sue responsabilità nella vita della Chiesa.
settimananews.it

Dalle Diocesi: è tempo di ferie e di vacanze

E’ trascorso quasi un mese dal Solstizio d’estate e in questi giorni, sulle nostre coste, in montagna e nei piccoli centri iniziano ad arrivare turisti da ogni parte d’Italia e… non solo.
E’ tempo di vacanze!
“A quanti arrivano per un periodo più o meno lungo di permanenza, il benvenuto della Comunità ecclesiale e mio personale!”, scrive il vescovo diCassano allo Ionio, in Calabria, mons. Francesco Savino augurando “una bella esperienza che ristori non soltanto le forze fisiche ma anche le forze spirituali. Che sia un tempo opportuno per respirare a pieni polmoni  l’aria salubre di una natura che, anche se mostra segni di interventi umani devastanti,  conserva oasi incontaminate. L’arte sacra riserva  bellezze in cui si può leggere la lunga storia cristiana”. Il presule poi si rivolge ai tanti calabresi che per varie ragioni vivono fuori regione e  che, in questi giorni, ritornano nei luoghi di origine: che sia un tempo “per ritrovare la famiglia e gli amici con cui rinsaldare rapporti incrinati dalla lontananza. Cercate particolarmente gli anziani e ritrovate nei loro lenti e stanchi racconti, spesso ripetitivi, la memoria di un passato cui si può e si deve attingere la Speranza di un  cambiamento possibile!”. E agli operatori turistici gli  auguri di buon lavoro e l’invito a vivere questo tempo “con dedizione, impegno e disponibilità massima perché la Calabria mostri il volto dell’ ospitalità genuina”.
Ai turisti si rivolge anche il vescovo di Cesena-Sarsina, mons. Douglas Regattieri, sottolineando che “l’ambiente che vi ospita per qualche giorno è bello e accogliente. Mentre vi ringraziamo d’averlo scelto per trascorrervi un po’ del vostro tempo, vi invitiamo a conservarlo e a mantenerlo bello e pulito”. “La Comunità cristiana – scrive nel messaggio -  è lieta di accogliervi. Attraverso il ministero dei presbiteri, dei diaconi e dei religiosi, nelle nostre parrocchie, nelle chiese e nelle istituzioni religiose disseminate sul territorio, troverete disponibilità per la celebrazione dell’Eucaristia e del sacramento della Riconciliazione, per un colloquio e un confronto spirituale”.
Sono giorni difficili questi per tanti territori colpiti da roghi in ogni parte d’Italia. Centinaia e centinaia gli interventi richiesti ai Vigili del Fuoco e alle Forse dell’Ordine e molte anche le abitazioni a rischio oltre che i danni causati da questi incendi. Il vescovo di Nola, mons. Francesco Marino, esprime “preoccupazione e amarezza” incoraggiando i cittadini, i sindaci, le forze dell’ordine e gli uomini impegnati “eroicamente a domare le fiamme”, invitando  tutti “a non indietreggiare davanti alla prepotenza di gesti che mirano a distruggere la nostra terra”. “Non abbattetevi, non scoraggiatevi insieme possiamo restituire a questi luoghi la dignità che meritano, possiamo riuscire a garantirci il diritto alla salute e al godimento delle bellezze del territorio che abitiamo. Sono certo – scrive il presule - che il Governo nazionale non ci lascerà soli per arginare le
fiamme e per arginare chi, con atti criminali, vuole farci vivere nella paura e nello smarrimento”. Denunciare atti vandalici contro l’ambiente è un “dovere morale, oltre che civico, perché si tratta di
salvaguardare il bene comune”, è il monito dell’arcivescovo di Reggio Calabria-Bova, mons. Giuseppe Fiorini Morosini: “la nostra terra è bella: i monti, i mari, le spiagge e i luoghi turistici, che tanti ci invidiano. Ogni estate, però, porta con sé il solito scempio e degrado: l’inquinamento ambientale e gli incendi. È triste vedere lungo le strade tra il verde intenso degli alberi, chiazze multicolori di spazzatura. È drammatico che ogni anno brucino ettari ed ettari di bosco. È indecoroso – scrive mons. Morosini -  che, dopo aver trovato riposo tra i monti e sulle spiagge, lasciamo sporco, incuranti che anche altri debbano gioire - come noi - degli stessi luoghi”.
E in vista del tempo di discernimento pastorale che si aprirà a settembre, lapastorale giovanile della Cei propone un sussidio per camminare insieme verso il Sinodo dei vescovi sui giovani dell’ottobre 2018. Si tratta del quaderno “Considerate questo tempo. Discernere la Pastorale Giovanile tra fede e vocazione” che offre dieci schede per un percorso di discernimento che vuole arrivare in profondità. Tale strumento è stato presentato negli incontri di primavera durante gli appuntamenti interregionali degli uffici di pastorale giovanile. Si rivolge alle consulte diocesane, ai consigli pastorali diocesani e parrocchiali, alle équipe di educatori, ai formatori di congregazioni religiose, associazioni, movimenti e altre realtà ecclesiali che hanno uno sguardo e una responsabilità particolare sulle effettive pratiche di pastorale giovanile vocazionale in Italia oggi. E ai giovani è dedicata la Marcia Francescana che si svolgerà dal 25 luglio al 4 agosto da Livorno ad Assisi.
Questo è anche il periodo di diverse feste patronali a livello diocesano in Italia. Domani a Catanzaro la festa del Patrono San Vitaliano mentre a Palermo,  in questi giorni, si celebra la festa dedicata a Santa Rosalia e che ha visto, ieri 14 luglio, l’arcivescovo, mons. Corrado Lorefice accogliere, presso il Palazzo Arcivescovile di Palermo, i rappresentanti di tutte le confessioni religiose, le autorità civili e consolari, per un incontro di fraterna amicizia tra cattolici, musulmani, ebrei, ortodossi, evangelici, anglicani e indù. Sempre a Palermo ieri il 90mo anniversario dell’inaugurazione  del Museo Diocesano avvenuta il 14 luglio 1927. Il Museo palermitano è infatti uno dei primi musei diocesani aperti in Italia e fu voluto dal card. Alessandro Lualdi, Arcivescovo di Palermo dal 1904 al 1927. E proprio il Museo ospita un ala dedicata a Santa Rosalia con un ricco gruppo di pitture che vanno dal XIII al XVIII secolo, tra cui l’antica tavola pubblicata nel 1927 e il ritratto ufficiale dipinto da Vincenzo La Barbera del 1624.